Incontro con l'autore Masahisa Fukase

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Autrice: Giulia Mozzini
www.giuliamozzini.com

Gli incontri con gli autori sono sempre, fondamentalmente, delle decisioni. Magari non nostre, non meditate e non pienamente conscie, ma non avvengono mai per caso.

E' una di quelle mattine invernali che non assomiglia per nulla a una mattina invernale stereotipata. Il sole è prepotente e l'aria è frizzante ma non fredda, la luce colpisce con arroganza l'asfalto e i muri sporchi , facendoli sembrare d'oro.

Sono giornate così surreali queste, che non hanno tempo né stagione. Eppure, per quieto vivere, devi metterti la giacca pesante quando esci e fare come se fosse un giorno non diverso dagli altri, anche se i colori splendono, il termometro segna 15 gradi e il cielo urla con tutto l'azzurro di cui è capace.

In questi momenti vorremmo solo trovarci di fronte un altro paio di occhi che facciano cenno di comprenderci, vorremmo qualcuno che ci mettesse una mano sulla spalla e dicesse: “Ehi, mi sento anche io così”.

Avevo bisogno di un autore, avevo bisogno di una mostra.

Arrivo a 10 Corso Como e salgo le scale per raggiungere la Galleria Carla Sozzani. Entro e vedo, sulla parete, un enorme viso e quegli occhi di cui avevo tanto bisogno. “Ti capisco”, sembravano dirmi

Sono gli occhi giapponesi di Masahisa Fukase, nel suo autoritratto scattato nel 1992, e PRIVATE SCENES è il titolo dell'esposizione: una selezione dei suoi lavori più significativi. Alle mie spalle un altro paio di occhi spalancati , stavolta però i lineamenti sono decisamente meno umani: Sasuke, il gatto di Fukase, ci tiene a darmi il benvenuto.

Fukase è nato il 25 Febbrio 1934 a Bifuka, nell'Hokkaido. Durante la sua vita lavora a Tokyo ma torna spesso nella cittadina natale per far visita alla famiglia; mantiene un legame di profondo affetto con i genitori che gestivano uno studio fotografico. La sua musa, nonché seconda moglie, si chiama Yoko Wanibe e, nella loro convivenza decennale, Fukase decide di fotografarla quando esce ogni mattina dalla finestra del loro appartamento. Nel senso che le scatta foto attraverso la finestra, intendo, non che la moglie uscisse dalla finestra.

Osservo tutte le foto di Yoko che si susseguono una dietro l'altra, con la stessa inquadratura dall'alto che la fa sembrare tutta testa e gambe, sempre impeccabilmente originale nel vestiario. In una foto ha una piccola pochette a forma di faccia di panda . I giapponesi hanno sempre avuto questa passione per lo stile manga-kitsch e riconoscere questi dettagli, che delineano la percezione della cultura orientale tramite stereotipi tipicamente occidentali, mi fa sorridere.

Me li immagino, quei due, che magari la sera litigano, discutono, e il giorno dopo, però, c'è il rituale dello scatto dalla finestra che li obbliga a guardarsi negli occhi, a sorridersi anche se non avrebbero voluto e avrebbero preferito ignorarsi ancora per un po'.Quello scatto rimetteva sicuramente tutto a posto, lì per lì...Poi, però, non è più bastato. Masahisa e Yoko divorziano nel 1976, dopo 13 anni insieme.

La parete finisce e, girandomi, intravedo il principio di un'altra serie; Un lavoro diverso, inizia “ THE SOLITUDE OF RAVENS”. Una serie di scatti di questi stormi di volalitili neri, talvolta qualche dettaglio sulle ali, sulle zampe. Rami di alberi che si allungano minacciosi verso il cielo, neve bianchissima con l'impronta nera delle loro zampe. Moli sul mare con una foschia sinistra e i corvi che si alzano in volo sul cielo grigio. E' come se, perdendo Yoko, avesse perso anche la sua capacità di riconoscersi come umano e vedesse sè stesso come uno di loro, quegli uccelli neri e solitari. Con Yoko lui medesimo era Yoko, fotografava sé stesso attraverso di lei ma, senza Yoko, non rimanevano che ombre sfuggenti e tanta solitudine. 

Abbiamo vissuto insieme per dieci anni, ma lui mi ha visto solo attraverso l'obiettivo, e credo che tutte le fotografie di me fossero indiscutibilmente fotografie di se stesso".- Yoko

Come quando sul palcoscenico cala il sipario e le luci si spengono, così RAVENS era l'oscurità necessaria a Fukase per cambiare la scenografia e passare al prossimo atto.

Di fatti, oltre la parete, iniziano una serie di strane fotografie in bianco e nero con delle macchie di colore, delle scritte, dei dettagli evidenziati con linee fluorescenti, come se qualcuno fosse impazzito e avesse iniziato a imbrattare le stampe con degli evidenziatori o degli uniposca.

Nel totale delirio cromatico,scorgo dei neri, piccoli occhiali appoggiati su un naso a patata. Dettagli che mi ricordano subito un bizzarro individuo che mi sembra di conoscere. Mi avvicino: la foto è palesemente un selfie di Fukase che, senza pudore, slinguazza quel vecchio mattacchione di Nobuyoshi Araki che, ovviamente, non si tira indietro e spalanca la bocca. Temendo che non fosse tutto abbastanza esplicito, Fukase ha ben pensato di sottolineare ulteriormente la vicenda scrivendo sopra la stampa “ARAKISS con un indelebile nero e un piccolo cuoricino.

Sorrido pensando a cosa avrebbero potuto creare due menti così fuori dall'ordinario. Scopro solo più tardi che Fukase, facendo parte della generazione degli autori giapponesi del dopoguerra che rinnovano il linguaggio fotografico dell'epoca, fonda la Workshop photography school. Lo fa nel 74, insieme a Shōmei Tōmatsu, Eikoh Hosoe, Noriaki Yokosuka, Daidō Moriyama e, appunto, il nostro Araki.

La serie si intitola “BERUBERU”. Non mi faccio domande sul titolo, a volte meglio non sapere, beata ignoranza. Esaminare le foto una alla volta e cercare di distinguerne i colori e i dettagli è davvero la modalità di approccio più sciocca: guardarle nell'insieme è, sicuramente, il modo migliore per riempirsi gli occhi di tutte le suggestioni e le ambiguità della sua personalità. Era come osservare la radiografia della sua anima, fruibile a ogni persona che avesse voluto davvero intuire che cosa ci fosse nel suo cuore e nella sua testa. Roba forte per persone coraggiose. Masahisa Fukase è stato capace di rendere la sacralità della morte e , allo stesso tempo, di canzonarla con un'ironia così semplice da sembrare infantile, sbeffeggiandola come fanno i ragazzini teppisti con le vecchie signore.

Arriviamo al culmine con la serie BUKUBUKU. Stavolta non posso far finta di niente, il titolo risuona nel mio cervello e mi ricorda il verso che emetteva mio fratello, a 1 anno, quando rovesciava la pastina dal seggiolone. Una serie di autoritratti molto simili, uno attaccato all'altro, riempiono la parete. Sostanzialmente, un giorno, Masahisa Fukase entra nel suo bagno con una macchina subacquea e decide che è assolutamente una buona idea farsi dei selfie sott'acqua mentre sputa bolle d'aria dalla bocca. Come dargli torto, c'è gente che su Instagram ha milioni di Followers per molto meno.

La mostra ha tutta un andamento irregolare, un ritmo di continui alti e bassi, il polo positivo e il polo negativo esercitano la loro opposizione tra le pareti; si passa dalla malinconia all'ironia in pochi passi: non doveva avere un umore molto stabile il nostro.

Cammino e giro intorno all'ultima parete. A prima vista, vedo quella che sembra essere una normalissimaserie di ritratti familiari: i componenti al centro dell'inquadratura, su fondo bianco, a volte dei ritratti a mezzo busto. Paiono banalissime se non fosse che, guardando meglio, in ogni foto sbucano persone in mutande oppure una modella svestita in mezzo al gruppo. I ritratti sono ambientati proprio nello studio fotografico di famiglia e ci sono tutti: Sukezō, il papà, sua madre Mitsue, il fratello Toshiteru, sua sorella Kanako, i suoi nipoti e, a volte, Fukase stesso. Un misto di serietà e spiritosaggine in chiave di parodia è il modo con cui il nostro autore testimonia la lenta scomparsa di uno studio fotografico che esisteva da tre generazioni e, insieme a lui, la dispersione graduale di una famiglia. 

Tutto va dileguandosi e il tono si abbassa, diventando quasi solenne, come quando lasciamo gli schiamazzi dei turisti e il traffico della piazza principale ed entriamo in una chiesa. MEMORIES OF MY FATHER è l'ultima serie e Fukase non ha più tanta voglia di scherzare. 

Leggo la didascalia accanto alle stampe:

Si dice che tutto ciò che vive deve morire, ma mi rende piuttosto emotivo pensare per mio padre il destino che mi attende in un lontano futuro. la mia famiglia, la cui immagine vedo invertita nella lente smerigliata della macchina fotografica, un giorno morirà. Quest'apparecchio riflette e congela le loro immagini, ma in realtà è uno strumento che registra la morte”.

 

L'effetto emotivo è paragonabile a una festa in cui la musica è assordante e tutti sono ubriachi, ridono a crepapelle e danno i numeri e, improvvisamente, qualcuno cade svenuto e batte la testa a terra e i suoi occhi iniziano a fissare il vuoto. Fine dei giochi. Silenzio assordante e panico. 

Salgo le scale e mi siedo, sul terrazzo della Carla Sozzani, alzando il mento in direzione del sole. Mi sono riempita gli occhi e ho ripercorso in punta di piedi l'anima di Fukase: ora ho bisogno di un momento. Dopo aver visto una mostra, passano giorni prima che mi documenti ulteriormente e contestuallizzi meglio i lavori con il vissuto dell'autore; preferisco che la mostra sia come un primo incontro con una persona: ti concentri sulla prima impressione, lasci che il tuo pregiudizio (perchè tutti lo abbiamo) ti aiuti a identificarla, classificarla e che l'istinto ti guidi nel tracciare i contorni della sua personalità. Con alcuni autori il primo incontro è, a dirla tutta, più uno scontro, non tanto con l'autore in sé ma con quella parte recondita del nostro essere che viene sbattuta violentemente fuori guardando le sue opere. 

Qualche tempo dopo, leggo che Fukase cadde scendendo le scale di un bar, a Shinjuku, nel 1992: era il suo bar preferito. Non si riprese mai più da quella caduta, ebbe danni cerebrali permanenti e morì nel 2012. Mi ricorda Manzoni che cadde scivolando sul gradino di casa mentre usciva per andare a messa, ma lui morì subito. Ferventi cattolici e ferventi bevitori hanno sempre di che temere. 


 


 


 

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